IL SILENZIO DEI VIVI

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Per non dimenticare la shoah. (E. Springer, Il silenzio dei vivi, Marsilio Editore)

Per non dimenticare. Elisa Springer nacque a Vienna il 12 febbraio 1918. Figlia unica di una famiglia viennese era anche ebrea, benestante e serena. Le fiabe, in genere, raccontano di fanciulle che da poverelle della vita diventano principesse onorate ed amate; in questo libro si racconta la storia ‘vera’ di una bimba prima e di una fanciulla poi, dall’esistenza ‘dorata’, che verrà ‘segnata’ per sempre, nel corpo e nello spirito, dalla disumana esperienza delle torture nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale.

 

Elisa, appartenente ad una famiglia dalle nobili origini, ci racconta, con tenerezza e fierezza, la sua prima infanzia nella sua bella casa nel centro di Vienna: il padre, commerciante e appassionato di musica, la mamma, dolce figura premurosa, la tata, gli zii e le zie, elencati uno ad uno e descritti alla luce della nostalgia e del rimpianto. Tutti spiccavano e si distinguevano, per capacità ed abilità nelle proprie professioni, nella società austriaca del primo Novecento. La maggior parte di essi furono torturati, annullati e ‘finiti’ nei campi della morte. La loro colpa? Essere ebrei.
Solamente qualche anno più tardi i ricordi della dolce infanzia di Elisa sarebbero stati annullati da un unico sentimento: l’istinto di sopravvivenza. Nel giugno del ’38, la crudeltà nazista privò questa giovane donna e la sua famiglia del padre, il signor Richard. Lo arrestarono, lo espropriarono della sua attività, della casa, di tutto. Ricorda Elisa: “Vidi mio padre allontanarsi lungo la scala e volgere lo sguardo verso di noi, quasi a rassicurarci. Si fingeva tranquillo per non allarmarci più del dovuto…” Sei mesi più tardi un telegramma comunicò alla famiglia che il signor Richard Springer era deceduto a Buchenwald.
La mamma, invece, in un estremo atto di coraggio, rinunciò alla salvezza, rappresentata da un permesso di soggiorno a Londra, che però avrebbe visto momentaneamente esclusa la figlia. Non partì. Elisa, invece, cercò di ovviare alla deportazione sposandosi ‘formalmente’ con un italiano. Con i nuovi documenti cercò salvezza, spostandosi, da sola, da un paese all’altro dell’Europa. Non vide mai più la madre. Ed il suo triste peregrinare fu inutile. All’età di 26 anni fu deportata al campo di concentramento di Auschwitz.
Da questo momento in poi non parleremo più di Elisa ma del numero A-24020.
Per non dimenticare “Fummo spinti brutalmente e caricati su di un vagone bestiame, senza un criterio preciso, bambini, neonati, vecchi e invalidi…”. Dopo vari giorni di viaggio, senza cibo, nè acqua “Fummo fatti scendere velocemente e, a colpi di bastone, spinti e radunati nel piazzale…”.
Pronti per la ‘selezione’, intere famiglie furono divise. Gli anziani ed i bambini, inutili per le produzioni, furono i primi a visitare le camere a gas, i forni crematori. Gli altri “dovevano essere perfetti per i lavori più pesanti”. C’era poi la rasatura totale dei corpi degli uomini e delle donne e la marchiatura. “La tecnica delle punizioni variava a seconda dei casi e dei momenti: si passava dalle bruciature con il ferro rovente, allo strappo delle unghie, ai calci, alle bastonate…” Il pranzo era costituito da una brodaglia grigiastra a base di rape ed ortiche. Le bucce di patate scartate dalle mense naziste al grido di “Fressen…Schweine” (Mangiate, porci), un lusso. L’autrice continua ancora lo sfogo amaro dei ricordi volutamente repressi per cinquant’anni. Impossibile per noi una ‘sintesi’. Alla fine della prigionia il numero A-24020 era ridotto ad un ‘essere’ di 28 chili. Quando l’esercito russo arrivò a liberare il campo, Elisa non aveva più la forza di piangere. Lo fece sommessamente. Provò a mangiare della cioccolata, piano. Un figlio, nato in seguito, la restituì alla vita. Rivide la sua casa. I suoi oggetti. Chiese ai nuovi “padroni”, una famiglia nazista, un gesto di pietà. Un quadro fu staccato dalla parete e “regalato” ad Elisa. Su di esso impressa l’immagine della sua famiglia. Dice Elisa:” Lo strazio più grande, in questi cinquant’anni, è stato quello di dover subire l’indifferenza e la vigliaccheria di coloro, che ancora adesso, negano l’evidenza dello sterminio”. Per non dimenticare.

Cristina Palumbo

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