Nel QS World University Rankings 2019 le università italiane occupano il 3° posto in Europa dopo Regno Unito e Germania.
A svettare, oltre a “La Sapienza” di Roma, ci sono il Politecnico di Milano con ben tre discipline nelle prime dieci della classifica, l’Università Bocconi, per business e management, e molte altre che hanno visto una valutazione più che positiva dei parametri indicati per stilare la classifica più considerata al mondo. Le città italiane con più università nei vertici della classifica sono: Milano, Roma e Pisa.
L’impegno nella ricerca a vari livelli, con un occhio attento alle sfide della globalizzazione, ha senz’altro premiato i nostri atenei.
Secondo il terzo rapporto biennale ANVUR 2018, tuttavia, la spesa in Italia per l’istruzione terziaria è dello 0,96% del PIL, a fronte della media europea dell’1,55%.
Non possiamo certo mettere in discussione la qualità dei nostri ricercatori visto che siamo i secondi in Europa dopo la Germania, ma sicuramente il fenomeno della mobilità dei “cervelli” italiani che s’indirizza sempre più verso i paesi esteri, mentre quelli stranieri che scelgono l’Italia sono sempre di meno.
Possibilità concrete di essere apprezzati e di fare carriera, facilità di accesso nei luoghi preposti per la ricerca, burocrazia semplificata, retribuzioni elevate, sono le motivazioni che sono alla base della fuga verso l’estero di molti dei nostri cervelli.
In questo contesto è il sistema paese che si deve fare carico di tamponare l’emorragia di professionalità che con il computer in mano varca i confini nazionali. L’offerta formativa delle nostre università è ottima, ma gli sbocchi professionali offrono ben poco ai giovani laureati. La precarietà dei contratti di lavoro, lo scarso collegamento che spesso si evidenzia tra il mondo dell’impresa e l’università, la difficoltà ad esprimere la propria professionalità secondo criteri meritocratici, sono sicuri elementi di deterrenza per la valorizzazione dei propri talenti nazionali e per l’attrazione di quelli esteri.
Cristina Palumbo
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