La crisi economica, fra le più gravi che l’Europa ricordi, è arrivata con la sua forza devastatrice dagli USA dieci anni orsono. Titoli spazzatura, frutto di cartolarizzazioni e ingegnerie finanziarie a dir poco azzardate e soprattutto sganciati pericolosamente dall’economia reale, erano considerati investimenti appetibili anche dalla maggior parte delle banche europee. Con un effetto domino, il fallimento di alcune banche americane, simboli di una finanza aggressiva e avventata, nel 2008, ha comportato il terremoto che tutti noi conosciamo; inizialmente le scosse telluriche si sono avvertite a livello del sistema bancario e finanziario europeo e successivamente a livello dell’ economia reale. Il che ha significato: milioni di imprese fallite, aumento vertiginoso della disoccupazione, calo significativo della produzione industriale, con la conseguenza di un forte calo dei consumi e della qualità di vita di molte famiglie.
In Italia la grande crisi ha mietuto milioni di posti di lavoro, un forte calo produttivo, la crisi del sistema creditizio e l’aumento in termini economici e sociali del divario nord sud. In questo quadro drammatico, tuttavia, il nostro Paese ha continuato ad essere il secondo paese esportatore dopo la Germania e uno fra i più importanti al mondo a livello di produzione industriale. L’italian style è ormai un brand a livello internazionale, soprattutto nei settori della moda, dell’enogastronomia, dell’artigianato, della cultura e del turismo.
Dieci anni dopo possiamo dire, quindi, che l’Italia ce l’ha fatta a rimuovere le macerie e a ripartire? Purtroppo la risposta non è affermativa. In questi anni il nostro Paese è cresciuto mediamente dello 0,9% annuo, la Germania dell’1,8%, la Francia dell’1,1% e la Spagna del 2,8%, solo per fare alcuni esempi.
Nel 2017 il PIL dell’Italia è stato dell’1,5 %. Il livello precrisi non è stato raggiunto. Dobbiamo ancora lavorare affinchè questo accada. C’è un Sud che aspetta di non essere più una zavorra, ma una risorsa per il Paese. Segnali di riscatto in questo senso ci sono. Pensiamo all’indice di reattività d’impresa che lo vede protagonista. Per ogni attività produttiva che scompare nel meridione ce ne sono trenta che nascono. Pensiamo alla produzione di agricoltura bio, tre volte superiore al Nord. Pensiamo all’innovazione dell’impresa che ci vede, settentrionali e meridionali, protagonisti in Europa. L’Italia, inoltre, è ricorsa soltanto tre volte allo sforamento del vincolo del 3% del rapporto deficit-Pil, a fronte della Spagna, della Francia e del Regno Unito che lo hanno fatto per ben otto volte. E’ vero che con il nostro debito pubblico un freno ad una politica troppo espansiva era un percorso quasi obbligato, ma una politica che mirasse a favorire investimenti pubblici e privati sul territorio nazionale, concordata con l’Eu era senz’altro auspicabile. E lo è ancora oggi, se pensiamo al gap infrastrutturale che sussiste da decenni tra il Sud e il Nord del Paese. L’altro fattore che potrebbe accelerare l’uscita definitiva dalla crisi, infine, è l’utilizzo del risparmio privato accumulato. Solo quello finanziario costituisce il doppio del debito pubblico, se consideriamo anche gli immobili è quattro volte superiore.
Fare in modo che il sistema paese crei quelle condizioni di fiducia necessarie ai risparmiatori per investire i loro soldi e le loro energie in economia reale anziché in fondi comuni d’investimento e conti correnti, è compito della politica. Come è compito della politica abbattere gli sprechi e incoraggiare soprattutto le nuove generazioni a non demordere. A credere nella rinascita, perché è a portata di mano.
Cristina Palumbo Crocco
Comments are closed.